Ricordo di Augusto Mancini (1958)

Ricordo di Augusto Mancini, «La Rassegna lucchese», Lucca, gennaio-aprile 1958, e «Società fra gli ex-alunni della Scuola Normale Superiore di Pisa», Pisa, giugno 1958, pp. 3-5.

RICORDO DI AUGUSTO MANCINI

Richiesto di scrivere qualche pagina su Augusto Mancini per la rassegna del comune di cui egli fu consigliere, ho pensato che piú efficace di un articolo che tentasse una ricostruzione della molteplice attività di studioso e di politico del nostro amato maestro, potesse riuscire una testimonianza personale, una dichiarazione semplice e sincera di ciò che Mancini ha rappresentato per me come per tanti altri miei coetanei che ebbero in lui una importantissima, indimenticabile lezione di cultura nel senso piú pieno e completo di questa parola. Tanto piú che nel campo piú specialistico del suo magistero di filologo classico e di storico medioevale e risorgimentale la mia competenza sarebbe impari al compito di una precisa delineazione del vasto sviluppo della sua attività di studioso, mentre sarebbe poi una limitazione eccessiva se io ne parlassi solo per quel che riguarda l’incidenza pur notevole del suo interesse nel solo ambito della letteratura italiana, in cui io meglio posso valutare i risultati e le offerte del suo ingegno filologico, delle sue cognizioni ed esperienze molteplici cosí preziose, per non ricordar che questo, nei comitati per le edizioni nazionali di Dante e di Foscolo, di cui Mancini fu membro autorevolissimo.

Il mio incontro con Mancini si lega al mio ingresso come studente, nel 1931, all’Università e alla Scuola Normale di Pisa, al mio primo contatto con la cultura superiore in un ambiente alto e stimolante in cui, accanto a quella di Momigliano e Marangoni, maestri insuperabili nella formazione del gusto e alti esempi di moralità e serietà scientifica e umana, spiccava la figura di Mancini. L’incontro con lui fu per me, anzitutto nelle sue lezioni di letteratura greca, non solo l’incontro con un magistero filologico di singolare nitidezza e sicurezza, ma insieme con una mente lucidissima e concreta, con un gusto sobrio e schietto che, specie nelle sue letture e traduzioni dei greci (in quegli anni egli commentava Teocrito ed Esiodo), mi sembrò la luminosa espressione di una cultura greco-toscana, di un classicismo armonico e vivo attraverso il quale io capivo meglio insieme e la grecità e la civiltà toscana nel loro gusto antiretorico, nella loro essenziale educazione di misura e di concretezza. Cose e parole sviluppavano, nelle sue traduzioni impeccabili e vive, il loro nesso profondo e le parole giungevano sapide di realtà e di esperienza, lontane dalla falsificazione retorica di certo pseudo-classicismo dannunziano non ancora del tutto vinto nella mia formazione liceale, cosí come quelle immagini serene e vitali del costume e del paesaggio greco che coerentemente, attraverso la sua parola, si arricchivano dei toni e dei colori del paesaggio e della civiltà toscana, superavano ogni possibile appiattimento libresco e pedantesco, si presentavano fresche e attuali, poetiche e consuete, eterne e quotidiane.

E questa schiettezza espressiva faceva insieme avvertire la presenza in Mancini di una robusta struttura mentale, di un vigoroso e lucido razionalismo che, congiunto a uno spirito critico vigile e impaziente di ogni tradizione non confermata, di ogni pregiudizio e stortura, offriva una preziosa lezione non solo di chiarezza e misura umanistica in senso letterario, ma di onestà intellettuale, di abito scientifico, di fedeltà storica, di rispetto della realtà di un testo e di un autore del passato rivissuto insieme nella sua condizione autentica e nel suo riferimento a nostri vivi, presenti interessi.

Cosí la sua scuola, anche per chi come me non avrebbe seguito la specializzazione classica, era potente correttivo a certa giovanile tendenza alla ricchezza disordinata, alla forzatura arbitraria dei testi, portava a un controllo intimo di misura e precisione, e insieme convinceva dell’essenziale valore di una intera esperienza umana a sostegno della piú raffinata specializzazione di tecnica e di studio, nel vivo esempio di una personalità cosí armonica e ricca di interessi per la vita, di impegni non solo scientifici, ma umani e politici, che costituivano una parte fondamentale del suo fascino sui giovani. Né ci voleva molto a capire che le sue stesse doti di studioso si erano avvantaggiate di una formazione libera e di un esercizio civile che trasparivano anche nella chiarezza e sincerità della sua espressione e del suo metodo, e che sollecitavano il desiderio di una migliore conoscenza dell’uomo, di una maggiore possibilità di contatti, di cui egli era del resto generosissimo con i giovani, con i quali era sempre disposto a discutere passando dai problemi del suo mestiere a quelli della loro inquieta e difficile situazione in quegli anni tristi di dittatura. In quei nuovi e piú liberi contatti, mentre si approfondiva il senso e l’ammirazione del suo sicuro possesso scientifico, delle sue mirabili doti intellettuali (quella prodigiosa memoria – la memoria è profondo interesse per le cose che sol cosí può ricordare –, quella capacità spontanea ed educata di riassumere e chiarire i problemi piú difficili, quella prontezza di raccordo fra la sua disciplina e le altre anche piú lontane, quell’armonia di facoltà intellettuali pari alla sua eccezionale armonia fisica che lo manteneva sempre fresco e attento), si poteva meglio compiere un’esperienza preziosa di idee e virtú che Mancini cosí semplicemente e coerentemente ci offriva, in singolare contrasto con l’atteggiamento di silenzio e di chiusura di tanti altri uomini di cultura e in netto distacco dalla pseudo-cultura ufficiale.

Non che Mancini facesse “propaganda”, imprendesse intenzionalmente conversioni politiche (come piú apertamente faceva qualche nostro compagno già chiarito interamente come Baglietto o Capitini, di Mancini scolari affezionatissimi e amici), ma egli parlava e si comportava in certo modo come se si fosse vissuti nel clima libero in cui si era formato e aveva agito politicamente prima della dittatura. Egli non taceva di fronte alle opinioni incerte o alle domande che i suoi scolari gli esprimevano, smontando con sicurezza bonaria e paterna i miti nazionalistici, gli equivoci di un sentimento nazionale che spesso tratteneva da chiarimenti piú decisi in sede politica, mostrando l’inganno delle lusinghe pseudo-sociali del fascismo, e le illusioni ingenue di un’evoluzione o rivoluzione dall’interno della dittatura e del partito al potere.

Chi lo avvicinava aveva cosí l’impressione di una miracolosa sopravvivenza in lui di un mondo libero e aperto, di un’Italia nobile, di un’eredità risorgimentale, libera e laica, tanto piú suggestiva e convincente in quanto egli la rappresentava e la viveva con la tranquilla sicurezza di chi vedeva quel vergognoso periodo presente alla luce di un concetto troppo alto della storia nazionale per poter davvero pensare che quella storia venisse a concludersi nel vicolo cieco e maleodorante di quella reazione antiliberale, antisociale, anticulturale.

Sicché, fiducioso com’era nella forza della verità e della storia, e nella naturale bontà dell’animo e dell’ingegno dei giovani, egli meritò di poterseli ritrovare accanto piú tardi nell’attiva opposizione al fascismo e poi nella resistenza all’occupazione tedesca, in cui singolarmente rifulsero le sue doti di sacrificio e di sereno coraggio.

Doti, queste ultime, di cui io ho ammirato sempre soprattutto la radice di semplicità, di naturalezza, che davano alle sue virtú una luce cosí costante e le traducevano in costume di vita, in assoluta coerenza fra gli ideali e la pratica piú quotidiana e privata. E proprio questo mi pare di dover mettere in rilievo come uno degli aspetti che io ho piú ammirato in Mancini, anche come concreta conferma della sua continuità con quell’epoca risorgimentale a cui si richiamavano i suoi ideali mazziniani e repubblicani, e di cui egli concretamente viveva quegli aspetti di costume antiretorico, di sobrietà, di disinteresse, di esercizio spontaneo di virtú di convivenza e di moralità intima che tante volte appaiono come virtú piú invocate che esercitate, sommerse da un’avidità di potenza personale, di agio a qualunque costo, di subordinazione dell’attività politica al vantaggio che se ne può personalmente ricavare. Ora, chi ha conosciuto Mancini da vicino, chi lo ha visitato nella sua casa cosí sobria, chi ha sperimentato la sua incuria assoluta dei propri agi e il disinteresse con cui agiva, con cui si spendeva generosamente per ideali e persone, senza aver nulla guadagnato per sé da un’attività politica e culturale cosí lunga e di primo piano, sente che egli a suo modo continuava, anche nel suo modo di vivere piú privato, il costume appunto di uomini di vario valore, ma di pari onestà, che formarono in tempi lontani l’Italia onesta e nobile in cui anche un piccolo arbitrio per un vantaggio personale poteva provocare uno scandalo nazionale. Un costume che il fascismo, triste Mida che convertí in fango quanto toccò, aveva interrotto nella vita pubblica e che cosí raramente la ricostruzione democratica ha fatto rivivere se non in gruppi di élite e in uomini che come Mancini oppongono il vigore di ideali esercitati fino alla piú minuta pratica privata alla triste consuetudine di far distinzione fra parole e azioni, fra programmi professati e la loro attuazione nella propria vita.

Né la sua sobrietà estrema era davvero grettezza, ché ad essa corrispondeva una generosità impareggiabile nel soccorrere gli altri, nel donare quanto poteva, senza nessuna proporzione con il tenore di vita che egli conduceva personalmente.

E ugualmente, sicuro dei suoi ideali politici e laici, egli esercitava la sua generosità e le sue virtú sociali senza alcun limite e senza alcuna distinzione di fedi e di partiti, maestro anche in questo di un costume purtroppo assai raro e consunto in un mondo di rapporti che troppo condizionavano il riconoscimento del “prossimo” alla sua appartenenza o meno a determinati gruppi e ideologie. Egli spendeva la sua energia, la sua possibilità di aiuto, gioiosamente, per tutti e soprattutto per gli umili, i trascurati, gli inermi, a cui piú duro e lento a schiudersi è il mondo della burocrazia che Mancini conosceva e muoveva non per sé, ma per gli altri e, tutto sommato, con il desiderio di rimediare per quanto gli era possibile a quelle lentezze e difficoltà che colpiscono, appunto, soprattutto i deboli e gli indifesi.

Tutte queste sue qualità si appoggiavano su di una sua fede robusta nella vita e nei suoi valori, fede rafforzata dai suoi ideali etico-politici democratici, liberali, laici, dalla sua cultura che aveva i suoi perni soprattutto nella Grecia, nel Rinascimento, nell’Illuminismo, nel Risorgimento mazziniano, ma anzitutto fiducia nativa, sorretta da una vitalità meravigliosa e armonica, e da un incrollabile, vitale e virile ottimismo.

Non posso dimenticare, a questo proposito, il modo con cui Mancini si comportò, in giornate dolorosissime per lui, di fronte all’espressione di un pessimismo facile e per lui poco virile. Lo accompagnavo a casa, pochi giorni dopo la morte del suo giovane figlio, quando incontrammo un vecchio signore che lo fermò per porgergli le sue condoglianze. Voleva a suo modo consolarlo e pensò di farlo insistendo sul mal comune delle sventure, sulla prevalente presenza nella vita del male e del dolore. Ma quando la generica consolatoria si precisò nella formale affermazione che il male è tanto maggiore del bene, Mancini, già cosí vecchio e provato dalla sventura, interruppe decisamente e, salutando il conoscente, gli disse: «No, no, tutto sommato, nella vita è piú il bene che il male». Poteva sembrare la singolare ripresa conversevole di una famosa polemica settecentesca, ma per Mancini quella risposta era estremamente significativa proprio cosí, data al culmine di un intenso dolore, di una lacerazione tremenda dei suoi affetti piú cari. Era la forza della sua fede, della sua fiducia nella vita cui non poteva rinunciare per una propria sventura, per un proprio privato anche se immenso dolore. E quel bene non era evidentemente la felicità, il piacere (per stare ai termini della famosa querelle settecentesca): era il complesso, creduto e sperimentato valore di una vita intera, libera, feconda di opere, sicura della continuazione nel lavoro di altri uomini, illuminata dalla poesia e resa piú alta dagli stessi dolorosi sacrifici che spesso impone.

Per questo a ricordare Mancini si prova desiderio e rimpianto, ma anche una centrale serenità. L’amarezza eccessiva, la commozione disperata non convengono a lui e al nostro vivo rapporto con ciò che egli è stato ed è tuttora, e per sempre, per noi.